PIANO TIME
2000
P. Pabst
Opera and Ballet Paraphrases Ciajkovsky and Anton Rubinstein (first recording)
Danacord DACOCD 450
E. von Sauer
Etudes de concert and Valses (first recording)
Danacord DACOCD 487/488
R. Strauss
Piano Music (Sonata op.5, Piano Pieces opp.3 and 9)
Danacord DACOCD 440
Le esplorazioni del repertorio pianistico che in genere non interessano ai nomi più conclamati del momento (o forse alle loro case discografiche, attaccate ai soliti compositori e ai soliti pezzi), interessano invece, per fortuna degli studiosi o degli appassionati, alle piccole case, che in pochi anni hanno dimostrato di gran lunga la maggior vitalità: non so se di mercato, certo culturale. I loro cataloghi, a differenza di quelle delle grandi case, non si possono ignorare: sono miniere, pozzi senza fondo, spesso piccoli trattati di musicologia. Questi dischi della casa danese, quasi presi a caso dal catalogo – una panoramica dedicata al pianista russo, residente in Italia da alcuni anni, Oleg Marshev – si permettono lusso di offrire ben tre (su quattro) prime incisioni assolute.
La prima preziosità riguarda le trascrizioni e parafrasi di Pavel Pabst su opere di Ciajkovsky e sul Demone di Rubinstein. Pabst, pianista russo dedicatosi all’insegnamento, e come tale divenuto celebre (fu maestro di Igumnov, Goldenweiser, Ljapunov), ha lasciato alcune “rivisitazioni” di opere altrui, come era allora d’uso; aprendo la strada ad un capitolo importante di questo repertorio in Russia, comprendente pagine di Siloti, Rachmaninov, Feinberg, ecc. Le sue parafrasi sull’Eugenio Oneghin e su La bella addormentata sono tuttora eseguiti, almeno dagli interpreti (ovviamente “virtuosi”) più attenti alle curiosità. A chi storcesse il naso di fronte a questo repertorio, se non bastasse aver letto quanto scrive Ferruccio Busoni a proposito della trascrizione, consiglio di leggere le note a questo disco, di certo – o certa – Kim Sommerschield: la trascrizione non come arbitraria posizione anti-filologica ma come evocazione di un’intera epoca, come prodotto di un continium storico in cui compositore, esecutore e pubblico si sentono parte integrante, tradizione ininterrotta in costante trasformazione.
Oleg Marshev, che certo durante i suoi studi al Conservatorio di Mosca era stato educato in questa tradizione, è interprete ideale in queste pagine, che domina con grande musicalità e virtuosismo.
Musicalità e virtuosismo gli occorrono anche nei due dischi dedicati all’intera serie di studi e di valzer da concerto di Emil von Sauer (von per concessione dell’ultimo imperatore d’Austria), Sauer fu uno di quei giovani leoni che – li vediamo tutti in una celebre fotografia – nell’ultimo periodo della vita di Liszt frequentavano i suoi incontri e le sue lezioni: c’era Sauer, e c’erano Friedheim, Siloti, Stavenhagen, Lamond, d’Albert, Rosenthal, Albeniz, Reisenhauer, ecc. Ciascuno fece poi la sua strada, spesso gloriosa, qualcuno immeritatamente con l’etichetta “allievo di Liszt” (etichetta che Sauer da parte sua rifiutava), ma certo si trattava di un gruppetto di pianisti non male.
Sauer fece di tutto: fu concertista, docente, compositore, revisore. Trovò anche il tempo di sposarsi più volte, l’ultima con un’allieva di mezzo secolo più giovane. Ci restano diverse incisioni, la più illustre delle quali la registrazione dei due concerti di Liszt, fatta assieme a Felix Weingartner quando aveva ormai 76 anni. La parte apparentemente più divertente delle sue composizioni è la titolistica dei suoi studi (ne scrisse una trentina); vi è tutto il repertorio fantastico-letterario ottocentesco: venti, ruscelli, uragani, silfidi, cacce, sirene, visioni preghiere, ecc.: tutto rigorosamente in francese, naturalmente, con qualche concessione al tedesco (Vogelstimmen, Waldandacht) e qualche denominazione tipicamente studiereccia (Octaven-Etude, Etude in trilles, Etude chromatique, Staccato-Etude, Toccata).
E’ una musica che oggi si definirebbe “old style”, anche tenuto conto del periodo in cui fu scritta (si pensi a quel che succedeva nella letteratura pianistica in quegli anni a cavallo dei due secoli); ma di gradevolissimo ascolto e straordinario interesse pianistico. Un genere musicale, i direi pianistico anche sotto l’aspetto puramente tecnico, che oggi si è perso, fatto di grazia, di leggerezza, di charme. Sappiamo come sia difficile oggi ascoltare esecuzioni capaci di evocare lo spirito e la tecnica di una parafrasi straussiana o, appunto, di uno studio di questo tipo.
Marshev – con qualche pesantezza derivata forse dalla registrazione fin troppo presente – riesce ad evocare quella naturalezza fantastica per cui era celebre al pianoforte lo stesso Sauer, e nella rievocazione nostalgica della “old Vienna” del valzer suona anche con notevole “charme”.
Mentre Sauer si dilettava con i suoi Studi, nella sua geniale giovinezza Richard Strauss dedicava al pianoforte alcune delle sue prime composizioni: un omaggio alla forma classica della sonata (Sonata op.5), e due serie di pezzi “romantici” (Cinque pezzi op.3, Stimmungsbilder op.9). Arriverà poi, qualche anno dopo, la Burlesca per pianoforte e orchestra, e col pianoforte Strauss chiuderà: si limiterà – e certo una limitazione non è – agli accompagnamenti dei Lieder; un pianoforte allora tutto suo personale, sempre meno dipendente dagli illustri antecedenti che occhieggiano dalle prime pagine (Beethoven, Mendelssohn, Schumann, Brahms). Questi pezzi, autorevolmente rispolverati (opp.3 e 5) da Glenn Gould verso il 1980, non godono tuttora il favore degli interpreti, e dobbiamo ringraziare Marshev e la Danacord per averceli riproposti tutti e tre assieme. Ovviamente il ciclo migliore, piú personale e geniale, direi anche il piu ispirato, è l’op.9, che meriterebbe veramente di entrare nel repertorio dei pianisti odierni.
Marshev rende con senso classico, mendelssohniano, la Sonata, limitando l’uso del pedale di risonanza, ma muovendosi con grande libertà dal punto di vista agogico. Cosa questa che poi sposta vistosamente su terreno romantico i due cicli, dove personalmente avrei preferito una sonorità piu fantastica. Strauss prescrive, per ogni pezzo dell’op.9, l’uso rigoroso del pedale, in senso chiaramente romantico, schumanniano: per il secondo brano, An einsamer Quelle, addirittura pre-impressionistico. E’ questo un brano straordinario, di atmosfera quasi wagneriana, che se eseguito con sonorità non impalpabile (triplo pianissimo) e con pedali brevi diventa un’epigonica “romance sans paroles”. E’ l’unico appunto per un disco prezioso di un interprete interessante e intelligente, da seguire con attenzione.
Riccardo Risaliti